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La guerra di Mario ovvero "Problematiche dell'affido familiare"

Considerazioni di: Rebeccha Pesce - avvocata

Ci ritroviamo un giorno per vedere un film in cassetta che ha avuto un certo successo, “La guerra di Mario”, un film uscito un paio di anni fa, che narra la storia di un affido familiare fallito.
Nel nostro ordimento, l'affidamento familiare ha una finalità sociale molto bella in teoria, molto difficile da raggiungere nella pratica.

Da una parte c'è una famiglia “problematica” o comunque genitori che non ce la fanno a crescere il loro bambino, dall'altra c'è una famiglia o una persona che dà un aiuto con molta generosità: si prende con sé il bambino per breve tempo, un anno o due al massimo, un tempo ragionevole che permetta alla famiglia del bambino di superare le difficoltà e recuperare un ruolo genitoriale. Allora il bambino lascia l'affidatario e ritorna dai suoi genitori

La legge prescrive che siano i servizi sociali a curare che si realizzi l'incontro tra le due famiglie. E i servizi, durante il periodo di affido, controllano come si comportano le persone coinvolte, genitori bambino affidato affidatari, e riferiscono al tribunale, che decide “nell'interesse del minore”.

Questo film “La guerra di Mario” (del regista Antonio Capuano con Valeria Golino, Marco Grieco, Andrea Renzi, Rosaria De Ciccoracconta), narra, appunto, le vicende di un affido familiare disposto dal Tribunale per i minorenni.
Tenta di cogliere una realtà sociale e non elude le contraddizioni dell'intervento pubblico a favore dei minori (servizi sociali, tribunali), anzi, le rappresenta crudamente e dolorosamente.
Qualche critica benpensante aveva detto che nel film ci sono reminiscenze libertarie sessantottine.
A noi è sembrato un affresco realistico di una situazione complessa, tra affetti e giurisdizione.
Il protagonista, Mario, è un bambino attore preso dalla strada, come nei momenti migliori del neorealismo.
Nel film, è un bimbo di otto/nove anni che il Tribunale per i minorenni ha tolto alla sua famiglia incapace di crescerlo. Si vede all'inizio che Mario ha un passato violento nei bassi napoletani con incubi di guerra, in cui si immagina tra i bambini soldati.


Nello snodarsi della trama, a flash, si apprende che la mamma vera di Mario è una drogata dei quartieri degradati, che il nonno materno ha precedenti penali, che il bimbo cresceva per la strada quando il Tribunale ha deciso di collocarlo in affido familiare.
Così, Mario va a vivere con una coppia di intellettuali, in una bella casa, dove c'è una cameretta tutta per lui. La mamma affidataria è insegnante di storia dell'arte (figlia di una gran signora che vive a Napoli in una bella villa con giardino), il papà, giornalista. è un personaggio nuovo per Mario che non aveva mai conosciuto il suo papà vero.
La mamma affidataria è tutta dedita al bambino, cerca di soddisfare ogni desiderio o capriccio di Mario, come ritrovargli un cagnolino. Il papà affidatario è meno coinvolto e proprio non riesce a comunicare con quel bambino che parla così poco ma c'è una bella scena in cui va nella cameretta del bambino e lo guarda amorevolmente dormire accanto al suo cagnolino.


Certo è che le differenze tra l'ambiente di degrado da cui proveniva Mario e quello borghese della famiglia affidataria creano una cupa barriera di incomprensioni tra il bambino ed il padre affidatario, tra la mamma affidataria e l'assistente sociale che non condivide il suo permissivismo. Anche la comunicazione di coppia diventa difficile, ma lei resta incinta.
La mamma vera del bambino (quella che si droga), si intrufula, con il suo amante di turno, nella villa della madre dell'affidataria, creando disastri.


Il bambino accetta la vita borghese, ama la madre affidataria ('mamma del lunedì, mamma del martedì, mamma del mercoledì... mamma di tutti i giorni...!' scrive su un biglietto che le passa da sotto la porta della sua cameretta dove si era rifugiato). Ma non riesce a sradicarsi dalla sua sottocultura dei bassi napoletani.
L'assistente sociale lo trova con un compagno di strada a chiedere la carità, seduto sul marciapiede, suonando il piffero (con cui studia musica a scuola). Mario va dal nonno materno, pregiudicato, e salta fuori la battuta “la scuola è una prigione, la prigione è una scuola”.


L'assistente sociale è una bella ragazza, che all'apparenza ascolta la mamma affidataria. In realtà la “giudica” e la disprezza quando teorizza la libertà del bambino di esprimersi anche in modo non conforme alle aspettative, e non si pone in modo didattico e precettivo.
La scena finale è quella della stanza del giudice del Tribunale per i minorenni. Mario seduto sulle ginocchia della mamma affidataria l'abbraccia forte forte, mentre la giudice, al di là della scrivania, dice pressappoco così: “Il tribunale ha sbagliato ad affidare Mario a lei, me ne assumo la responsabilità”.


Fuori dalla porta del giudice c'è un'altra coppia dall'aspetto borghese, ben vestita, come la coppia protagonista della storia, che aspetta Mario... per dargli una educazione meno permissiva.
Che l'affido rappresentato sullo schermo fosse di fatto sbagliato, lo aveva riconosciuto il giudice del Tribunale Minorile.

Ma chi sconta le conseguenze di questi errori, che non sono poi tanto infrequenti?


Commentando la storia di questo film, Lucia sostiene che giudici e assistenti sociali hanno in mente un tipo di famiglia ideale. Quando si trovano di fronte a bambini di famiglie disastrate, non hanno gli strumenti per capire.
Cesare sostiene che l'errore è quello della affidataria che non sapeva distinguere tra il ruolo di genitore direttivo e quello di amico accondiscendente.


Laura dice che il bambino sradicato dal suo ambiente, ha innanzitutto un bisogno di libertà che la mamma affidataria aveva compreso. Nella sua “guerra” per crescere, Mario, nonostante l'intervento pubblico del tribunale per i minorenni e dei servizi sociali, resta la vittima .


Luisa (psicologa di scuola Lacaniana) censura una sorta di rapporto fallico tra la mamma affidataria ed il bambino, tanto è vero che il padre affidatario veniva messo in disparte.


Elena ricorda una novella, forse di Grazia Deledda: una madre di tre figli in un poverissimo villaggio di pescatori, assisteva una donna vicina di casa, malata, con due figli piccolini. Vedova di un pescatore che il mare si era portato via. Quando la donna è morta tra le sue braccia, la madre, dopo aver chiuso gli occhi all'amica, “si è presa quei due, a far cinque con i suoi tre...” “Qui c'era generosità. Ma adesso, in questa società, così complicata, anche un figlio diventa una... “burocrazia”, conclude. Ma aggiunge “... Chi ci vuol tornare a quei tempi di miseria...”.


Simone esclama: “Il film era a colori? Io me lo ricordo in bianco e nero”. In bianco e nero, come ragionano tribunali e operatori sociali. Invece il mondo degli affetti è a colori. Ci vorrebbero dieci lauree in psicologia per vedere il colore degli affetti di cui hanno bisogno i bambini, per vincere la loro guerra con la vita.