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Parigi

Recensione di: Gabriella Parca

Parigi non è più soltanto la capitale della Francia, ma anche il titolo di un film, che cerca di mostrare in qualche modo uno dei tanti volti della metropoli, quello della gente comune. L’autore (regista e sceneggiatore) dal nome non propriamente francese, Cédric Klapisch, eppure francese a tutti gli effetti, aveva già fatto una prova generale, ma più in piccolo, girando un film su i clienti di un supermercato, poiché quello che lo affascina - immagino - è la realtà vista come un mosaico composto da tante tessere.

Ma veniamo al film. Il filo conduttore è dato da  un uomo sui trent’anni, quindi nel pieno della sua esistenza, che viene a sapere dal medico di fiducia di essere molto malato, il suo cuore avrebbe bisogno di un trapianto, ma sulla riuscita dell’intervento non ci sono più del quaranta per cento delle probabilità. L’uomo, Pierre, è alle corde. E’ come se il mondo intero gli fosse caduto addosso. Ne parla con la sorella, Elise, la bravissima Juliette  Binoche, la quale per essergli vicina in tutti i sensi decide di trasferirsi da lui con i suoi tre bambini.


Tra alti e bassi, dovendo necessariamente rinunciare  alla sua attività di ballerino,  Pierre, interpretato da un Romain Duris che sembra l’emblema della tristezza appena velata dall’indifferenza, passa il tempo guardando dalla finestra il mondo circostante. E in particolare la “gente” che prima non aveva mai notato, e che adesso si anima e diventa persona e personaggio, ognuno con una sua identità e una sua storia. Anche se le storie non s’intrecciano quasi mai tra di loro, come avviene invece in questo genere di film. Perché “Parigi” è un film corale che più corale non si può, ma è un po’ diverso dagli altri, e lascia sospeso anche il finale, con  Pierre in taxi che va a farsi trapiantare il cuore, ma non sappiamo se nelle statistiche  rientrerà in quel quaranta per cento di fortunati o nel gruppo, più numeroso, dei sessanta per cento.


Il film si prestava anche per una riflessione sulla morte. Ma l’autore non la fa, almeno direttamente. Del  resto, se anche il Papa cambia il nome alla “comare secca”  chiamandola pudicamente “fine vita”, come può un regista non ancora famoso addentrarsi in quella selva oscura? Eppure qualcosa indirettamente lo dice. Anche senza citare la celebre frase di Sartre “ogni bambino che nasce è un condannato a morte”, nel film muore in un incidente una ragazza piena di vita  e di salute, mentre il condannato Pierre forse si salva. Almeno per ora.