Dagli anni ottanta questo termine viene applicato alle persecuzioni sul posto di lavoro.
Il MOBBING non è una pugno sul naso o una coltellata alle spalle. È molto di più, ma è molto più sottile, molto meno visibile e assai devastante. La vittima di MOBBING non ha più la voglia di niente, si sente annichilita, soffre in silenzio una sofferenza che può condurre, in casi estremi, al suicidio.
Come riconoscere il MOBBING e difendersi? Le nostre consulenti scrivono.
L'altra faccia del lavoro.
a cura di dott.ssa Silvia Cipolli, psicologa
Il termine“mobbing”deriva dall’inglese to mob (assalire, attaccare); è stato utilizzato dallo psicologo svedese Heinz Leymann agli inizi degli anni ’90 per indicare un particolare fenomeno riscontrato in ambito lavorativo consistente in una forma di violenza psicologica messa in atto deliberatamente nei confronti di una “vittima designata”, allo scopo di indurla ad allontanarsi dal posto di lavoro.
Esiste il mobbing orizzontale, quando la persona bersaglio (“il mobbizzato”), viene colpita da attacchi continui e sistematici da parte dei colleghi e il mobbing verticale, quando viene esercitato da un superiore nei confronti di un dipendente.
Leymann indica due condizioni necessarie perché un ambiente di lavoro possa essere caratterizzato dalla presenza di mobbing:
- La routine del conflitto ( almeno una volta la settimana)
- La sistematicità, il prolungamento nel tempo ( almeno sei mesi)
Il mobbing è un fenomeno profondamente lesivo della dignità personale e professionale del lavoratore, ma soprattutto della sua salute che viene progressivamente compromessa, tanto da ricorrere a cure farmacologiche e psicoterapeutiche di specialisti. Le vittime del mobbing chiedono aiuto accusando i sintomi più disparati: disturbi del sonno, disturbi dell’alimentazione, disturbi relazionali, ansia e attacchi di panico, disturbi dell’umore, la cui estrema espressione può tradursi in pensieri e/o atti suicidi. Tra i primi aspetti che caratterizzano le vittime di mobbing emerge l’inconsapevolezza che i loro problemi possano essere imputati al luogo di lavoro. Spesso la richiesta di aiuto giunge allo specialista quando il mobbing ha fatto il suo corso e lunghi periodi di vessazioni e di umiliazioni hanno comportato gravi conseguenze alla persona. Diverse possono essere le ragioni che determinano una tardiva richiesta di aiuto, tra cui la scarsa informazione sul tema.
Si stima che in Italia sono oltre un milione le persone colpite, cui sono da aggiungere i familiari, per un totale di circa cinque milioni. Nel 2001, la Commissione Europea ha riscontrato dodici milioni di casi in tutta Europa.
Alcune professioni sono più esposte al mobbing: i lavoratori di Banche, Assicurazioni, Enti Pubblici. Le vittime di mobbing hanno generalmente un età compresa tra i 45 e i 55 anni; appartengono all’alta dirigenza o a livelli gerarchici inferiori, senza particolare distinzione. Molte sono donne che vivono sulla propria pelle l’escalation dell’angheria.
Bibliografia:
Alessandro e Renato Gilioli, “Cattivi capi, cattivi colleghi”, Mondatori, Milano,2000;
H.Hedge - M.Lancioni, “Stress e Mobbing”, Pitagora Editrice, Bologna, 1998;
P.G. Moateri - M.Bona- U.Oliva, “ MOBBING Vessazioni sul lavoro”, Giuffrè Editore, Milano, 2000;
B.Rupprecht - Stroell,”Mobbing. No grazie!”, Tea, Milano, 2001
Consultare il sito dello psicologo scopritore del fenomeno, Heinz Leymann: www.leymann.se
Il caso
Dott.ssa Maria Di Benedetto, Psicoterapeuta
A.Z., che esercita lavoro dipendente di un certo livello presso una grande impresa, si trova già in psicoterapia avviata. Ha presentato una crisi di destabilizzazione in senso depressivo, aggravando una pregressa condizione di sofferenza, comunque contenuta anche dal supporto elaborativo connesso alla psicoterpia in corso.
Ciò che sembra di potersi ipotizzare è che A.Z. sia stato scelto, non a caso, dal gruppo di lavoro, quale capro espiatorio di dinamiche esasperatamente competitive, come quelle sottese in determinati ambiti lavorative.
Infatti è opinione di chi scrive che, proprio per la sua fragilità e per il suo sforzo di trovare significati “altri” alla propria esistenza che non si esaurissero nell'ambito lavorativo caratterizzato da forme totalizzanti, A.Z sembra risultare la "vittima designata" di un sistema interrelazionale sostenuto da dinamiche aberranti e conflittuali che tendono a scaricarsi emotivamente sui membri più deboli o meno conformi ad una cultura dominante.
Infatti, si è potuto rilevare nel "sistema comunicativo" una sorta di accanimento perseguito nel tempo, con costanza e tenacia, come forma di espulsione di chi può mettere in crisi il sistema stesso, in quanto individuato come portatore di una “cultura autonoma”.
Infatti, A.Z. già evidenziava la propria difficoltà ad adeguarsi ad uno stile di vita pervasivo oltre la sfera lavorativa, fatta di significati esistenziali che egli stesso sentiva alieni e egodistonici; mostrava anche il lacerante conflitto fra “essere” ed “appartenere” incosciamente consapevole che, nello specifico contesto relazionale, le due istanze difficilmente potevano coesistere.
In questo senso, dunque, il fenomeno del "mobbing" trova particolari similitudini con quei concetti propri della teoria sistemica e che ricordano le dinamiche familiari del tipo "paziente designato" e "la comunicazione paradossale"
Sostegno farmacologico
Dott.ssa Serena Magrì, Neurologo - Psicoterapeuta
A.Z. viene indirizzato alla neurologa in quanto manifesta sofferenza intensa, a carattere depressivo / ansioso.
La rappresentazione ideativa è quella dell’intrappolamento in situazioni di vita globalmente fallimentari.
Tale rappresentazione genera la percezione di una inadeguatezza personale, a sua volta fonte di ulteriori vissuti di disvalore e indegnità.
La catena ideativa-percettiva è percorsa in entrambe le direzioni.
Sulla base di una condizione “premorbosa” caratterizzata dalla difficoltà alla realizzazione di progetti adulti di significazione e appartenenza, - in relazione a una iperidealizzazione delle figure parentali ad effetto fondamentalmente inibente sui processi adattivi – si sviluppa, in contesto di “mobbing” – una reazione depressiva con perdita dei meccanismi elaborativi di compenso delle difficoltà soggettive descritte, meccanismi allenati e potenziati da tempo in un contesto psicoterapico.
Il ripetuto trauma narcisistico e la prolungata minaccia alla sicurezza personale prodotto dal “mobbing”, precipitano una condizione depressiva che si differenzia dalla situazione di sofferenza e difficoltà precedente, in ragione della sua inaccessibilità a una decodifica simbolica e del prevalere di aspetti sintomatici (pianto, ansia, insonnia).
All’intervento psicoterapico – che in questa fase assume caratteristiche più supportive e meno interpretative – si affianca quello psicofarmacologico, gestito da un operatore che, indicato dalla psicoterapeuta, si configura come una estensione della stessa psicoterapia.
Il farmaco agisce riequilibrando le condizioni biochimiche che costituiscono le basi biologiche delle emozioni, condizionandone le caratteristiche espressive dal punto di vista di radicalità e tendenza globalizzante.
Il recupero di stabilità emotiva conseguente alla terapia, permette ad A.Z.. di riprendere il cammino elaborativo ed immaginare strategie di gestione di sé rispetto alle difficoltà oggettive incontrate.
Brevi note sul risarcimento del danno da mobbing
Avv. Giovanna Chiara
Il comportamento di chi ha fatto pressione su A.Z. preso di mira da colleghi e/o superiori “quale capro espiatorio di dinamiche esasperatamente competitive”, per la sua “fragilità”, non viene più ignorato dalla legge.
Si tratta di comportamento illecito che provoca un danno che va risarcito.
Innanzitutto, vi è una responsabilità del datore di lavoro. La norma fondamentale è l’art. 2087 del codice civile, che non solo stabilisce le misure preventive antinfortunistiche, ma impone anche di garantire “la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tale norma va letta alla luce dell’art. 32 della Costituzione che riconosce la salute come bene di interesse collettivo e, nello stesso tempo, come diritto assoluto della persona, ed anche dell’art. 42 della stessa Costituzione, secondo cui l’attività economica non può volgersi in modo tale da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Accanto alla responsabilità del datore di lavoro che ha il dovere di vigilanza, può esserci anche una responsabilità dei colleghi e/o dei superiori (mobbing orizzontale, mobbing verticale).
Sono responsabilità apprezzabili dal Giudice anche sotto profilo penale quando configurano reato? Per esempi, molestie, ingiurie, minacce, lesioni personali fisiche e/o morali ….
Ciò comporta per chi ha subito tali condotte, un diritto al risarcimento del danno subito.
Si tratta di danno materiale (danno emergente e lucro cessante), di danno morale, se il comportamento mobbizzante configura reato (molestie, ingiurie, minacce, violenza, lesioni…), nonché di danno alla persona come danno biologico ed anche esistenziale: categorie tipiche di danno, ricavate nel “diritto vivente” per gli aspetti di rilevanza sociale dalla cultura giuridica e dalla giurisprudenza affermatasi negli ultimi anni.
Individuato dalla psicoterapia che la sofferenza, il disagio e la conseguente malattia (che ha oltretutto bisogno di cure farmacologiche), sono eziologicamente riconducibili a comportamenti di mobbing sul posto di lavoro, al fine della richiesta/ottenimento di risarcimento, è necessaria la prova. Ne consegue che - probabilmente anche con il supporto psicoterapeutico – sia opportuno ricostruire le condotte mobbizzanti e registrare gli stadi della malattia, con il fine di fondare la prova e documentare il danno in sede giudiziale.
Si parla sempre di più anche di “mobbing” in famiglia , e non solo sul posto di lavoro.
E alcune recenti sentenze, tendono a colpire quei comportamenti illeciti che si verificano all’interno dei rapporti familiari (si parla di illeciti ‘endofamiliari’). Sono quelle condotte che ledono la “persona” e la “dignità” del familiare, creando nella vittima dispiacere e disagio, con conseguenze simili a quelle subite da A.Z., sul posto di lavoro.